Sotto le luci della rivolta – di Danilo D’Angelo e Silvia Salese

Ovvero: cosa rende le proteste inefficaci e gli sforzi vani.

Siamo tanti. A protestare, pestare i piedi, studiare, cercare. E poi, quando nessuno ci vede, a deprimerci un po’ per come continuano ad andare le cose.

Chi ha deciso che questo non è un mondo sostenibile né una bella storia da offrire alle generazioni future, non si è certo svegliato un bel mattino di febbraio con idee di resistenza e attivismo. Sono anni che ci proviamo, che ne parliamo, che viaggiamo e che osserviamo inebetiti ad una disfatta su tutti i fronti. Sono anni che proviamo a fare la nostra parte e a lavorare contro le distorsioni di un sistema mondiale e globalizzato, che si palesa in tutto il suo orrore nelle fasce di popolazione mal nutrita, abbandonata, mutilata, deprivata di ogni bene e dignità. 

Alcuni di noi queste realtà le conoscono, molti le ignorano. Ignorano nel senso che anche se sanno di queste situazioni, magari avendole viste in TV o lette sui giornali o nei libri, ne ignorano la vera portata che si percepisce solo stando in quei luoghi, chiamati da noi il terzo mondo, e vivendo negli slum, parlando con gli attivisti del posto e magari impegnandosi personalmente per dare una mano. Solo così vivi quelle vite. E non stiamo parlando di Paesi in guerra, ma della condizione fisiologica di quelle terre.

A questo punto occorre porsi una semplice domanda: riteniamo davvero che il mondo dovrebbe essere radicalmente diverso dall’attuale, oppure questo sistema in fondo va bene, ma ha bisogno di piccoli aggiustamenti? La risposta a questa domanda è fondamentale. Perché, a seconda della risposta, il nostro atteggiamento, le nostre azioni e riflessioni cambierebbero notevolmente. 

Vogliamo un divano diverso o solo una posizione più comoda? Magari con qualche cuscino in più ed una copertina calda per i nostri bambini o per quelli seduti vicini a noi. Si, siamo tutti d’accordo su cosa non funziona, su quali sono i problemi da affrontare, ma dal punto di vista propositivo la pensiamo tutti nello stesso modo? Diciamo sempre che l’essere umano commette sempre gli stessi errori e non impara dalla sua stessa storia. Facciamolo noi, allora.

Negli anni ’70, se vi andate a rivedere interviste e audizioni in tribunale di chi protestava a gran voce, sia di destra che di sinistra, vedrete che molti di loro dicono che la lotta armata non ha portato i risultati sperati perché i vari gruppi, pur essendo d’accordo su cosa non andasse nello Stato italiano, non lo erano assolutamente sulla visione di una società diversa. Esplorare il territorio conosciuto e disegnarne la mappa è solo l’inizio, ma dove andiamo poi? E soprattutto, ricordiamoci che non ci dobbiamo andare solo noi, ma l’intento è portarci dietro tutta la popolazione italiana, se non altri. E come facciamo a portarceli dietro?

Cosa stiamo cercando, davvero? E stiamo cercando tutti la stessa cosa?

Rispondendo ad un richiamo di coscienza che ci sollecita a fare qualcosa, sembra che negli ultimi mesi molti di noi – una volta lanciati verso il pulpito necessario per far risuonare il proprio richiamo – si siano fatti abbagliare dalle luci del palcoscenico. Le luci della rivolta. Ed ecco che diversi dei nostri compagni di viaggio si sono presto ritrovati alle prese con problemi di ben altra natura: come aumentare la propria visibilità sui social network, come entrare nelle chat più in voga (quelle che qualcuno ti ha detto “lì ci entrano solo i pezzi grossi”), farsi fare i complimenti pubblicamente (in modo che i “pezzi grossi” sentano), farsi invitare ad interviste ed eventi pubblici per sedere accanto a quelli che fino a 4 mesi prima erano supereroi inarrivabili, dal fascino mitologico e dal carisma super magnetico, acquisire più contatti utili per formare un nutrito uditorio per i nostri proclami.

Business situations. People in the office

Probabilmente questo accade per via di una visione poco chiara di ciò che vogliamo raggiungere, o per non aver fatto i preventivi conti con i nostri piccoli bisogni di riconoscimento, stima e apprezzamento. Debolezze di umana natura.

Allora forse, per essere credibili, non rimane che una strada: essere i primi ad incarnare lo spirito del tanto acclamato “nuovo paradigma”, qualunque cosa questo voglia dire.

Perché, pensiamo, è appunto questo il nodo principale: che credito dareste a chi professa il celibato e ha tre famiglie? Cosa ne pensereste di un dietologo con problemi di obesità? Cosa ne direste di un monaco che ha fatto voto di povertà e che ha un conto milionario in una banca svizzera?

Parliamo spesso di nuovo paradigma, ma continuiamo a vivere in quello vecchio. Pariamo di cooperazione e solidarietà, ma facciamo per conto nostro ogni qual volta intravediamo la possibilità di ottenere in cambio una nocciolina da non dividere con nessuno. Ecco allora che emerge un’evidenza: il cambiamento che vogliamo deve avvenire prima dentro ognuno di noi, deve inserirsi nelle nostre cellule, nei nostri sogni e nelle immagini che popolano la nostra vita, altrimenti non potremmo mai nemmeno immaginare una società diversa; una logica non è traducibile in un’altra. 

Occupandoci entrambi di scuola e formazione, possiamo assicurare che la parte predominante dell’apprendimento avviene per plagio: il discente, cioè, apprende di più dal modo di comportarsi, parlare e agire del docente che dai libri. Soprattutto i bambini piccoli capiscono perfettamente se l’insegnante crede in ciò che dice o se lo fa solo per dovere. L’esempio, quindi, è fondamentale. E, permetteteci di dire, l’esempio che stiamo dando noi non è esattamente di donne e uomini nuovi, di chi ha abbracciato un nuovo paradigma. È di persone del vecchio mondo, che utilizzano il vecchio paradigma, ma ne professano la venuta di uno nuovo.

Per fare un piccolo e forse banale esempio, ma che è sintomatico del modo di porsi di molti di noi nei confronti, in questo caso, dell’informazione: diteci, secondo voi, che differenza c’è tra la “gente comune“ che commenta incessantemente e con angoscia crescente le varie notizie relative al Covid, per esempio, dalle quali viene letteralmente terrorizzata, e alcuni di noi che bombardano le chat ogni giorno con centinaia di messaggi, link, video, documenti con titoli e proclami assolutamente allarmistici, per poi scoprire, magari, che sono notizie inesatte o superate e contraddette da quella che uscirà pochi minuti dopo? Dal nostro punto di vista non c’è nessuna differenza. Entrambe sono prede del sistema mediatico, chi del mainstream e chi della cosiddetta informazione alternativa o libera. Nessuno sta proponendo qualcosa, nessuno sta mostrando un esempio nuovo. In questo caso non c’è un vero cambio di paradigma, ma solo di oggetto della notizia. Ma il meccanismo è il medesimo: non riusciamo a vivere ciò che ci accade attorno con il distacco necessario in modo da poter essere sobri nei nostri ragionamenti e commenti. E non viviamo quotidianamente, fino in fondo, tra i nostri cari e nelle mura domestiche, le alternative.

Quanti di noi, di fronte alle ingiustizie di questo momento, si è chiesto: “Ma io, sono una persona giusta, onesta, retta?

Quanti, davanti alle menzogne cui siamo sottoposti, si è domandato: “E io, dico sempre la verità?”.

Attoniti assistiamo a show di inaudita inadeguatezza e siamo allarmati per ciò che sembra accadere nel mondo. Un mondo che ci vuole malati, sembrerebbe, e neghi ogni possibilità di salute e benessere naturali. Ma tu, come mangi? Di cosa ti nutri, a tutti i livelli, tutti i giorni? Stai aiutando l’economia andando, ad esempio, ad acquistare nei negozi di prossimità, o preferisci fare un ordine su Amazon perché è più comodo ricevere i 10 chiodi che ti servono per la cassapanca, piuttosto di andare dal vecchio ferramenta del paese vicino? Dobbiamo farcele queste domande, e dobbiamo farcele subito. Ed agire in modo differente: pena l’inefficacia di tutti gli sforzi che stiamo compiendo. Sappiamo benissimo che, anche se tutti noi vivessimo nel modo più armonico possibile, anche se fossimo attenti a cosa e a come la consumiamo, chi veramente inquina, distrugge l’ambiente e le specie viventi sono le grandi industrie. Ma come possiamo sentirci a posto con la nostra coscienza? Come diceva Gandhi “sii il cambiamento che vuoi vedere negli altri”.

Abbiamo spesso la forte impressione che tutto questo “circo” che abbiamo creato non sia altro che il luogo dove ci riconosciamo tra di noi, dove una piccola fetta di pubblico (microscopica, in confronto alla maggior parte della popolazione) ci applaude, dove ci sembra di fare molto per gli altri, dove lavoriamo tantissimo, siamo occupatissimi in mille attività tutte apparentemente encomiabili, ma con la sensazione di girare a vuoto  e di fare tanto rumore per nulla. Sostanzialmente ci siamo ricavati uno spazio in cui veniamo riconosciuti, ma poco di più. Ci rivolgiamo ai più “complottisti” tra di noi: siamo sicuri di non essere tollerati dal sistema, che ci dà la possibilità di parlare e di fare tutte le nostre attività all’interno della nostra gabbia rivoluzionaria, perché tanto è consapevole dell’inutilità di quello che stiamo facendo? Siamo certi che il nostro essere inefficaci da un punto di vista cooperativo, strappandoci di mano il microfono, non sia proprio il carosello per chi il potere lo detiene veramente?

Abbiamo voluto condividere queste nostre riflessioni perché per noi è importante capire con chi stiamo facendo questo percorso. Non siamo convinti che l’importante sia buttare fuori il ladro da casa o che non conti molto chi sta aiutando a spegnere l’incendio (metafore in voga tra di noi), perché un conto sono gli obiettivi, e un altro è la motivazione che ci spinge a volerli raggiungere. Il fine non giustifica i mezzi, e per giunta il fine non è nemmeno chiaro e condiviso.

E il ladro che vorremmo buttare fuori, forse si è annidato proprio dentro di noi.

Non abbiamo risposte, ma solo interrogativi che, speriamo, possano aiutarci a imparare dall’esperienza che stiamo maturando. Ricominciamo il nostro lavoro, rimettiamoci pure a lavorare sui temi che ci siamo scelti, ma facciamolo dopo aver chiarito questi punti che sono la base sulla quale costruire il modo in cui ci confronteremo e cercheremo di unirci per fare la nostra parte. Uniti si vince. In se stessi (prima) e poi con gli altri.

Business teamwork join hands together. Business teamwork concept

Pubblicato da Silvia Salese

Psicologa | Clinica, formazione e docenza - www.silviasalese.com

2 pensieri riguardo “Sotto le luci della rivolta – di Danilo D’Angelo e Silvia Salese

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